E’ l’esplosione di colori fantastici e la voglia di vivere che si respira in ogni angolo, a rendere l’atmosfera del Chiapas così densa di energia, un’energia che fa vibrare ogni più piccolo centimetro del corpo. E come una locomotiva in corsa, che nascosta dalle nuvole di vapore, improvvisamente ti attraversa da parte a parte, con l’impeto e la forza di un popolo millenario, che ancora avvolge nei misteri dei suoi riti. Una terra di una ricchezza immensa, un tipo di ricchezza che non si misura in pesos. I dollari non hanno valore, è una prosperità dei sentimenti, un paradiso del sorriso che dà un nuovo colore all’atono ritmo di vivere grossolanamente ogni momento. Il Messico, la sua gente, è un viaggio molto più lontano di milioni di chilometri, è una transizione nelle viscere della vita, un pellegrinaggio nel tuo intimo, che muove una carovana di sensazioni verso una meta speciale. Tutto ciò in cui credi, ciò che ami, quello per cui lotti, le lacrime che versi, i sorrisi che ti illuminano, i dolori che ti vivono….
Chiapas, terra selvaggia domata dalla generosità della natura, che ha saputo regalare a questo luogo paesaggi di incantevole bellezza. Una tradizione che crede nel sole, nell’elemento primario di vita. Tutto ruota intorno a perfetti calcoli astronomici, che allineano astri, sole, costellazioni. Simbolo dell’energia, della potenza, il sole riscalda ogni cosa ed i colori caldi dominano sugli altri, fiori sfumati d’arancione, gialle farfalle, papaia, mango, tappeti. Ma anche la terra parla del sole. L’ambra incastonata tra le rocce, incontra venature scure nel suo colore giallastro e ricorda la potenza dell’astro, così come la forza del giaguaro, simbolo fin dall’ antichità dello stato del Chiapas. E la forza di questo popolo si racconta anche nella sua storia, nelle battaglie per l’indipendenza, nella volontà di rovesciare il dominio della ricca oligarchia locale e rendere la terra un privilegio di tutti. Un paesaggio che nasconde mille altri paesaggi al suo interno, così diversi l’uno dall’altro, ma così necessari per completarsi. San Cristobal De Las Casas protetto dalle mura delle montagne, fu nel 1994 rifugio dei rivoluzionari zapatisti, ma oggi non lascia traccia se non di una fresca e ridente cittadina. Una serenità infinita per i vicoli pieni di negozietti e prodotti gastronomici da sperimentare. E poi l’odore degli aghi di pino che cospargono il pavimento della chiesa di San Juan Chamula. Quell’odore resinoso misto a cera. Mentre attraverso i gruppi del villaggio intenti a compiere il loro rito contro il male e la sofferenza, posso sentire il calore delle decine di candele cosparse nel pavimento sulle mie caviglie. Un’ atmosfera surreale. Ogni gruppo di indigeni è attorno al curadores, che cerca di liberare l’affetto dal male allontanandolo con rigurgiti di aria ed una volta purificata l’anima del malato, viene sacrificata una gallina dove la credenza vuole che il male sia andato a nascondersi. E’ un popolo conservatore, tradizionalista, che non ammette fotografie per non farsi rubare l’anima e che si sposa tra parenti, causando anche gravi malattie genetiche come l’albinismo. Ma tutta questa primordialità incanta ed incuriosisce, voglia di dissetarsi di ogni particolarità, delle storie di ognuna delle croci che giacciono nel cimitero del villaggio. Ogni colore rappresenta una vita diversa, il bianco simbolo dell’ innocenza del bambino, il nero della saggezza della vecchiaia ed il verde, gli anni verdi della vita, quelli dell’uomo in fiore. San Cristobal, contornato da piccoli villaggi indigeni, alcuni così lontani che devono camminare infiniti sentire per trovare un po’ d’acqua, altri in cui gli abitanti non possono curarsi se malati per la distanza eccessiva dalle strutture di cura. Penso a quante storie, a quante vite non basterebbero per farsele raccontare tutte…penso alla mia vita, così diversa dalla loro. Zinacantan, un gruppo di case tra la strada ciottolosa, mentre le ruote la percorrono nuvole di polvere si sollevano da terra. Qui la popolazione usa la propria vita per arricchirsi un po’ ed intere famiglie spalancano la porta di casa ai turisti. Un velo d’imbarazzo mi colora il volto, mi sento a disagio ad entrare, mi sento un’ intrusa nella vita di altri. Mi invitano con grandi sorrisi e quando mi propongono di provare uno degli abiti tipici, mi sento un fenomeno da baraccone. Mi sembra di giocare con la solennità di questo popolo e seduta in un angolo guardo allibita gli altri turisti che si ingozzano con voracità delle tortillas offerte dalla padrona di casa. Sgomitare per farsi spazio, per avere la foto migliore perché la luce è poca, aspettare con impazienza per precipitarsi nella tavola imbandita e fare razzia di ogni cosa come predatori assetati. Alla fine del banchetto la tavola è coperta solo delle bucce dell’avocado e le ciotole tinte appena del colore delle salse che prima traboccavano. Ma vuoto è anche il cestino per le offerte, chi ha messo 1 pesos, chi 5…una dicotomia spaventosa, l’abbondanza del cibo e dell’ospitalità e l’assenza di chi è ospite. Le bambine hanno lunghissimi capelli neri e degli occhi vivaci, scuri come olive e ridono tra loro mentre sgranocchiano le nostre caramelle. Si stanno facendo le trecce, si pettinano e noi le lasciamo li. Partiamo per Palenque, la strada è meravigliosa, piena di banani colmi di frutti e i bambini corrono qua è la quando vedono passare l’autobus, come se fosse una delle maggiori attrazioni della loro giornata. Un percorso meraviglioso. Finalmente l’arrivo e quando scendo e metto piede a terra, una sensazione di calore e pesantezza mi schiaccia verso il pavimento. Questa è l’aria di Palenque, l’afa della giungla che la cinge, l’umidità che fa mancare il respiro. Ma l’entusiasmo è troppo ed allora tutto si fa più leggero. Prima di entrare nel sito archeologico mi sento emozionata, proprio come prima di un’esame, una sensazione che avevo quasi rimosso. Vorrei comunicare al mondo la mia gioia e quando la vegetazione che nasconde le rovine si fa più rada e scorgo lo scorcio dei templi che maestosi dominano il paesaggio, una bomba di emozioni esplode in me ancora una volta. Mentre salgo quei gradini di pietra, mi immagino l’ascesa della vita, ogni scalino una difficoltà, un ostacolo, una gioia, un amico, è come un percorso di vita. Così imponenti gli edifici protendono al cielo, salutano gli astri e raggiungono il sole. Chissà quale maestria li ha costruiti, quale fatica e dedizione li ha eretti ed allora mi immagino gli scopi, le credenze di questo popolo, i balli con il capo contornato da piume, il gioco della pelota. Ma l’emozione più grande è stata l’ascesa al Templo de la Cruz. Dopo la fatica sotto il sole a picco, le gambe che agli ultimi scalini cominciano ad avvertire un tremolio che dal polpaccio sale fin sulle cosce, il respiro incalzante ed i battiti del cuore che risuonano come una tamburo dentro la cassa toracica, ecco che mi volto. Volgo lo sguardo ed il tempo si ferma. Sono io che lo voglio immobilizzare per un minuto, per osservare meticolosamente ogni particolare ed imprimerlo nelle mia memoria, per ogni volta che vorrò rivedere questo scenario degno di una fiaba. Da lassù lo sguardo si perde all’ orizzonte, una giungla sconfinata ovunque, il verde della speranza, della forza e di fronte a tutto ciò ci si può sentire anche piccoli, ma fieri di esserne un puntino tra i tanti. Dalla vetta, si domina una panorama davvero indescrivibile a parole, i templi sono immersi in una vegetazione lussureggiante, foglie giganti, colori vivissimi ed i rumori che abitano questa foresta sconfinata, i gridi strazianti delle scimmie urlatrici in lontananza. Mi inebrio di tutto ciò e chiudo gli occhi, ascolto. La magia che più rimane impressa in me è il calore trasmesso da ogni volto che ho incontrato, ogni persona che volontariamente per strada mi ha concesso il suo aiuto senza neanche chiederglielo, il tassista che mi sorrideva e mi parlava di quando era piccolo, di come suo padre gli avesse mostrato il film delle bighe di Ben Hur e di come avesse sempre immaginato Roma, pur non vedendola. Probabilmente non la vedrà mai, ma io pur avendo viaggiato e visto tanti posti, attraverso i suoi occhi ho scorto ciò che forse non riuscirò a conquistare mai, ho scoperto la semplicità di vivere la vita senza pretese, la capacità di tirar fuori il meglio delle cose che si ha e che si è. Il Messico è comunicabilità, gioia di vivere nonostante tutto, è duro lavoro, ma è anche fiesta, è il riuscire a dire le cose senza bisogno di grandi parole, è la musica che accompagna la vita in ogni momento, è guardare gli occhi dei bambini che ti corrono incontro perché felici vogliono ancora caramelle, è tutto questo e molto di più. Ma il piccante della vita messicana non è solo una filosofia di vita, un modo di affrontarla con il sorriso, con il ritmo della salsa nel sangue. “Un po’ di pepe” nella vita aiuta a stare meglio e la cucina messicana è una terapia dell’ anima, fatta di colori ed energici sapori speziati. Ho cercato di assaggiare ogni più piccola specialità, per immergermi appieno in questi gusti decisi ed intensi. Già la tavola apparecchiata è uno spettacolo per la vista. Le tovagliette multicolore sono una perfetta scenografia per i piatti imbanditi. I colori vividi delle salse rosse e verdi infondono allegria, ogni piatto è accompagnato da verdura fresca, riso, platano fritto e fagioli neri, un’abbondanza di pietanze. Tortillas, burritos, tacos, sfoglie di farina di mais, che cambiano nome a seconda delle dimensioni, del ripieno e della modalità di cottura. Gli ingredienti sono semplici, patate, formaggio filante, carne di manzo, pollo o maiale, ma non mancano piatti particolari e tradizionali di ogni stato, come il Tamal Untado, una purea di carne e fagioli,cotta all’interno di una foglia di banano, che gli conferisce un sapore dolciastro o l’empanada, una tortilla fritta ripiena di svariati ingredienti. Il sapore inconfondibile del Messico mi è entrato nell’ anima ed in qualche modo quando mi sento stretta in questi panni, quando il prezzo delle case è irraggiungibile, quando non ci sono contratti per i giovani, quando esistono i pedofili, quando la gente suona il clacson immersa nel traffico e si manda a quel paese, io mi rifugio nell’ immaginazione di quest’atmosfera esotica, nell’ideale che mi sono creata di questa terra meravigliosa, anche se piena di problemi e povertà e l’energia che riempie questo pensiero mi rende immune da tutto e tutti ed ancora fiduciosa che il mondo si può migliorare, basta rendere migliori noi stessi.
Chiapas, terra selvaggia domata dalla generosità della natura, che ha saputo regalare a questo luogo paesaggi di incantevole bellezza. Una tradizione che crede nel sole, nell’elemento primario di vita. Tutto ruota intorno a perfetti calcoli astronomici, che allineano astri, sole, costellazioni. Simbolo dell’energia, della potenza, il sole riscalda ogni cosa ed i colori caldi dominano sugli altri, fiori sfumati d’arancione, gialle farfalle, papaia, mango, tappeti. Ma anche la terra parla del sole. L’ambra incastonata tra le rocce, incontra venature scure nel suo colore giallastro e ricorda la potenza dell’astro, così come la forza del giaguaro, simbolo fin dall’ antichità dello stato del Chiapas. E la forza di questo popolo si racconta anche nella sua storia, nelle battaglie per l’indipendenza, nella volontà di rovesciare il dominio della ricca oligarchia locale e rendere la terra un privilegio di tutti. Un paesaggio che nasconde mille altri paesaggi al suo interno, così diversi l’uno dall’altro, ma così necessari per completarsi. San Cristobal De Las Casas protetto dalle mura delle montagne, fu nel 1994 rifugio dei rivoluzionari zapatisti, ma oggi non lascia traccia se non di una fresca e ridente cittadina. Una serenità infinita per i vicoli pieni di negozietti e prodotti gastronomici da sperimentare. E poi l’odore degli aghi di pino che cospargono il pavimento della chiesa di San Juan Chamula. Quell’odore resinoso misto a cera. Mentre attraverso i gruppi del villaggio intenti a compiere il loro rito contro il male e la sofferenza, posso sentire il calore delle decine di candele cosparse nel pavimento sulle mie caviglie. Un’ atmosfera surreale. Ogni gruppo di indigeni è attorno al curadores, che cerca di liberare l’affetto dal male allontanandolo con rigurgiti di aria ed una volta purificata l’anima del malato, viene sacrificata una gallina dove la credenza vuole che il male sia andato a nascondersi. E’ un popolo conservatore, tradizionalista, che non ammette fotografie per non farsi rubare l’anima e che si sposa tra parenti, causando anche gravi malattie genetiche come l’albinismo. Ma tutta questa primordialità incanta ed incuriosisce, voglia di dissetarsi di ogni particolarità, delle storie di ognuna delle croci che giacciono nel cimitero del villaggio. Ogni colore rappresenta una vita diversa, il bianco simbolo dell’ innocenza del bambino, il nero della saggezza della vecchiaia ed il verde, gli anni verdi della vita, quelli dell’uomo in fiore. San Cristobal, contornato da piccoli villaggi indigeni, alcuni così lontani che devono camminare infiniti sentire per trovare un po’ d’acqua, altri in cui gli abitanti non possono curarsi se malati per la distanza eccessiva dalle strutture di cura. Penso a quante storie, a quante vite non basterebbero per farsele raccontare tutte…penso alla mia vita, così diversa dalla loro. Zinacantan, un gruppo di case tra la strada ciottolosa, mentre le ruote la percorrono nuvole di polvere si sollevano da terra. Qui la popolazione usa la propria vita per arricchirsi un po’ ed intere famiglie spalancano la porta di casa ai turisti. Un velo d’imbarazzo mi colora il volto, mi sento a disagio ad entrare, mi sento un’ intrusa nella vita di altri. Mi invitano con grandi sorrisi e quando mi propongono di provare uno degli abiti tipici, mi sento un fenomeno da baraccone. Mi sembra di giocare con la solennità di questo popolo e seduta in un angolo guardo allibita gli altri turisti che si ingozzano con voracità delle tortillas offerte dalla padrona di casa. Sgomitare per farsi spazio, per avere la foto migliore perché la luce è poca, aspettare con impazienza per precipitarsi nella tavola imbandita e fare razzia di ogni cosa come predatori assetati. Alla fine del banchetto la tavola è coperta solo delle bucce dell’avocado e le ciotole tinte appena del colore delle salse che prima traboccavano. Ma vuoto è anche il cestino per le offerte, chi ha messo 1 pesos, chi 5…una dicotomia spaventosa, l’abbondanza del cibo e dell’ospitalità e l’assenza di chi è ospite. Le bambine hanno lunghissimi capelli neri e degli occhi vivaci, scuri come olive e ridono tra loro mentre sgranocchiano le nostre caramelle. Si stanno facendo le trecce, si pettinano e noi le lasciamo li. Partiamo per Palenque, la strada è meravigliosa, piena di banani colmi di frutti e i bambini corrono qua è la quando vedono passare l’autobus, come se fosse una delle maggiori attrazioni della loro giornata. Un percorso meraviglioso. Finalmente l’arrivo e quando scendo e metto piede a terra, una sensazione di calore e pesantezza mi schiaccia verso il pavimento. Questa è l’aria di Palenque, l’afa della giungla che la cinge, l’umidità che fa mancare il respiro. Ma l’entusiasmo è troppo ed allora tutto si fa più leggero. Prima di entrare nel sito archeologico mi sento emozionata, proprio come prima di un’esame, una sensazione che avevo quasi rimosso. Vorrei comunicare al mondo la mia gioia e quando la vegetazione che nasconde le rovine si fa più rada e scorgo lo scorcio dei templi che maestosi dominano il paesaggio, una bomba di emozioni esplode in me ancora una volta. Mentre salgo quei gradini di pietra, mi immagino l’ascesa della vita, ogni scalino una difficoltà, un ostacolo, una gioia, un amico, è come un percorso di vita. Così imponenti gli edifici protendono al cielo, salutano gli astri e raggiungono il sole. Chissà quale maestria li ha costruiti, quale fatica e dedizione li ha eretti ed allora mi immagino gli scopi, le credenze di questo popolo, i balli con il capo contornato da piume, il gioco della pelota. Ma l’emozione più grande è stata l’ascesa al Templo de la Cruz. Dopo la fatica sotto il sole a picco, le gambe che agli ultimi scalini cominciano ad avvertire un tremolio che dal polpaccio sale fin sulle cosce, il respiro incalzante ed i battiti del cuore che risuonano come una tamburo dentro la cassa toracica, ecco che mi volto. Volgo lo sguardo ed il tempo si ferma. Sono io che lo voglio immobilizzare per un minuto, per osservare meticolosamente ogni particolare ed imprimerlo nelle mia memoria, per ogni volta che vorrò rivedere questo scenario degno di una fiaba. Da lassù lo sguardo si perde all’ orizzonte, una giungla sconfinata ovunque, il verde della speranza, della forza e di fronte a tutto ciò ci si può sentire anche piccoli, ma fieri di esserne un puntino tra i tanti. Dalla vetta, si domina una panorama davvero indescrivibile a parole, i templi sono immersi in una vegetazione lussureggiante, foglie giganti, colori vivissimi ed i rumori che abitano questa foresta sconfinata, i gridi strazianti delle scimmie urlatrici in lontananza. Mi inebrio di tutto ciò e chiudo gli occhi, ascolto. La magia che più rimane impressa in me è il calore trasmesso da ogni volto che ho incontrato, ogni persona che volontariamente per strada mi ha concesso il suo aiuto senza neanche chiederglielo, il tassista che mi sorrideva e mi parlava di quando era piccolo, di come suo padre gli avesse mostrato il film delle bighe di Ben Hur e di come avesse sempre immaginato Roma, pur non vedendola. Probabilmente non la vedrà mai, ma io pur avendo viaggiato e visto tanti posti, attraverso i suoi occhi ho scorto ciò che forse non riuscirò a conquistare mai, ho scoperto la semplicità di vivere la vita senza pretese, la capacità di tirar fuori il meglio delle cose che si ha e che si è. Il Messico è comunicabilità, gioia di vivere nonostante tutto, è duro lavoro, ma è anche fiesta, è il riuscire a dire le cose senza bisogno di grandi parole, è la musica che accompagna la vita in ogni momento, è guardare gli occhi dei bambini che ti corrono incontro perché felici vogliono ancora caramelle, è tutto questo e molto di più. Ma il piccante della vita messicana non è solo una filosofia di vita, un modo di affrontarla con il sorriso, con il ritmo della salsa nel sangue. “Un po’ di pepe” nella vita aiuta a stare meglio e la cucina messicana è una terapia dell’ anima, fatta di colori ed energici sapori speziati. Ho cercato di assaggiare ogni più piccola specialità, per immergermi appieno in questi gusti decisi ed intensi. Già la tavola apparecchiata è uno spettacolo per la vista. Le tovagliette multicolore sono una perfetta scenografia per i piatti imbanditi. I colori vividi delle salse rosse e verdi infondono allegria, ogni piatto è accompagnato da verdura fresca, riso, platano fritto e fagioli neri, un’abbondanza di pietanze. Tortillas, burritos, tacos, sfoglie di farina di mais, che cambiano nome a seconda delle dimensioni, del ripieno e della modalità di cottura. Gli ingredienti sono semplici, patate, formaggio filante, carne di manzo, pollo o maiale, ma non mancano piatti particolari e tradizionali di ogni stato, come il Tamal Untado, una purea di carne e fagioli,cotta all’interno di una foglia di banano, che gli conferisce un sapore dolciastro o l’empanada, una tortilla fritta ripiena di svariati ingredienti. Il sapore inconfondibile del Messico mi è entrato nell’ anima ed in qualche modo quando mi sento stretta in questi panni, quando il prezzo delle case è irraggiungibile, quando non ci sono contratti per i giovani, quando esistono i pedofili, quando la gente suona il clacson immersa nel traffico e si manda a quel paese, io mi rifugio nell’ immaginazione di quest’atmosfera esotica, nell’ideale che mi sono creata di questa terra meravigliosa, anche se piena di problemi e povertà e l’energia che riempie questo pensiero mi rende immune da tutto e tutti ed ancora fiduciosa che il mondo si può migliorare, basta rendere migliori noi stessi.
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